La Castradina: Quattro secoli di Salute
La peste del 1630, nefasta conseguenza della Guerra di successione di Mantova e del Monferrato che aveva coinvolto direttamente Venezia, produce la triste conta dei morti che in tutto il dogado si ferma a 150.000 persone ed è il medico veneziano Alvise Zen a lasciarci la triste cronaca di quei giorni di grande sofferenza.
Nonostante i lazzaretti e le altre precauzioni il morbo infuriò incontrastato, la popolazione di Venezia venne decimata.
A portare la peste in Laguna sembra sia stato, l’8 giugno del 1630, l'ambasciatore di Carlo I di Gonzaga Nevers, il Marchese di Strigis, ovvero il contendente alla successione come Signore di Mantova appoggiato dalla Serenissima Repubblica.
Giuseppe Tassini, in quello splendido compendio toponomastico che sono le Curiosità Veneziane, ci fornisce un luogo preciso per identificare il primo focolaio o, detto alla moda del Covid 19, “cluster”, raccontandoci che: “In contrada di S. Agnese sviluppossi per la prima volta la peste nel 1630, e precisamente nella persona d'un Giovanni Maria Tirinello, falegname, che abitava dietro il campanile. Egli aveva contratto il morbo fatale andando a costruire quattro caselli di legno capaci di ricoverare i Guardiani di Sanità nell'isola di S. Clemente, ove era morto di peste con cinque serventi il marchese di Strigis, ambasciatore del duca di Mantova all'imperatore, provenuto da luoghi infetti”.
Giovanni Casoni nel suo libro “La peste di Venezia”, edito per i tipi di Alvisopoli nel 1830, ci dà la fedele cronaca giorno per giorno, morto per morto, e lo fa partendo proprio da quel campo Sant’Agnese citato anche dal Tassini: “Una ragazza di 14 anni ed altra di 26, nipote del parroco di Sant’Agnese, entrambe morte da tumori all'inguine, il cadavere di un fanciullo d ' anni 6 , rinvenuto nel campo di quella parrocchia, morto in tre giorni con petecchie o lividure nere, e che abitava presso la casa della lavandaia Pasquetta”
Nicolò Contarini, assurto al soglio dogale il 18 gennaio 1630, uomo di grande cultura e grandi capacità di governo, ordinò immediatamente la quarantena ma seppur immediato l’ordine risultò purtroppo tardivo e presto si dovette prendere atto che con i lazzaretti pieni in città la gente iniziava a morire in come le mosche, a quel punto non restava altro da fare se non iniziare a bruciare i cadaveri degli appestati.
L’apice della furia del morbo si registrò il 9 novembre 1630 con ben 595 vittime e la triste conta dei morti, registrata tra le carte del Magistrato alla Sanità, continua in una Venezia martoriata, e semideserta, già vittima di un esodo che vide circa 24.000 persone, in maggioranza nobili e notabili, riversarsi nelle dimore di campagna.
È in questo scenario che nasce, su richiesta della Signoria, la promessa di erigere una chiesa intitolata a Santa Maria della Salute e l’incarico viene affidato a Baldassare Longhena che progetterà la chiesa basandosi su modelli di chiara ispirazione palladiana, anche se la sua interpretazione è figlia di una visione molto personale dell’opera del Palladio.
La prima pietra, visto che nel marzo del 1631 il morbo inizia a perdere virulenza, viene posata il primo aprile dal Patriarca di Venezia Giovanni Tiepolo, il giorno seguente si spegnerà il Doge Nicolò Contarini, la peste venne dichiarata debellata il 21 novembre di quell’anno ed è questa la data che ci interessa perché dal 1631 i veneziani ogni ventuno di novembre festeggiano la Madonna della Salute.
La Basilica verrà ultimata solamente nel 1687 e benedetta dal Patriarca Alvise Sagredo il 9 novembre di quell’anno, lo stesso giorno che nel 1631 si contarono più morti di tutta la pestilenza, quindi non un giorno scelto a caso.
Per la costruzione furono utilizzati più di 100.000 travi, pietra d’Istria e marmi pregiati per gli interni, sforando di molto il budget iniziale di 50.000 ducati ma regalando alla città un edificio unico nel suo genere e di grande maestosità appagando così anche la vanità della Signoria veneziana e del Doge Marcantonio Giustinian.
Come spesso accade le ricorrenze importanti hanno anche un piatto della tradizione a ricordarle e, come i bigoli co’ l’anara (i bigoli con il ragù di anatra) ricordano la vittoria nelle acque di Lepanto del 1571, la Castradina da ben 389 anni ricorda la fine della peste a Venezia.
La Castradina è una zuppa che si ottiene dalla carne di castrato salmistrata, tipica di Dalmazia e Albania, che veniva venduta nelle barche attraccate agli stazi sulla riva degli Schiavoni, e dalle verze, è sempre il puntuale Giuseppe Tassini a ricordarci che: “Lungo il margine della medesima gli Schiavoni avevano, parte in terra, e parte in acqua, i loro stazii, ove vendevano «bojane» e «castradine»”.
Oggi come nel 1631 le cucine delle osterie, come quelle di molte famiglie, sono pervase dall’aroma della zuppa che deve cuocere lentamente con la carne di castrato che prevede ben tre bolliture diverse e che alla fine viene unita alle verze per completare la cottura con il brodo che viene conservato dall’ultima bollitura.
Ed è proprio con la Castradina che veniamo a sapere che Venezia, porta d’Oriente, introduce anche la salmistratura, un procedimento complicato che prevede l’utilizzo del salnitro, da cui deriva il termine, di una salamoia molto particolare che prevede anche l’utilizzo di alcune spezie e dell’affumicatura.
La salmistratura veniva utilizzata anche per la lingua, componente essenziale del bollito misto alla veneta e decantata, assieme ad alcuni componenti della confraternita dei Luganegheri, anche da Carlo Goldoni nelle sue commedie.
La salmistratura, grazie al complicato procedimento, oltre ad essere un sistema per insaporire la carne era anche un modo di allungarne la conservazione e permetterne così il trasporto.
In tempi recenti, oltre alla zuppa di antica memoria, è comparsa anche la variante degli gnocchi con il sugo di Castradina ma i veneziani sono rimasti molto più legati alla zuppa della tradizione.
La festa della Salute si celebra, vista anche l’importanza del piatto, prevalentemente a pranzo dopo la visita alla Basilica resa agevole dal fatto che il 21 novembre viene montato un ponte votivo che attraversa il Canal Grande fino al campo della Salute di fianco alla Basilica permettendo così ai fedeli di ringraziare la Vergine.
In tempi di Covid 19, o, come qualcuno ha voluto soprannominarlo: “la peste del XXI secolo”, questa ricorrenza ridiventa improvvisamente di grande attualità e chissà che un cero acceso alla Vergine non aiuti anche noi a superare questi momenti difficili.
Giovanni Veronese
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