La Polenta di Pietro Longhi
Pietro Longhi, pittore veneziano (Venezia 1701-Venezia 1785) ma soprattutto acuto osservatore del suo tempo del quale Carlo Goldoni ebbe modo di dire: “Fortunato sarà ugualmente il nostro comune amico celebratissimo Pietro Longhi, pittore insigne, singolarissimo imitatore della natura che, ritrovata una originale maniera di esprimere in tela i caratteri e le passioni degli uomini, accresce prodigiosamente le glorie dell'arte della Pittura, che fiorì sempre nel nostro Paese”.
Pietro Longhi, celebrato da molti Patrizi veneziani tra quali quel Pietro Gradenigo che ci lascia nei suoi Commemoriali un gustoso spaccato di quella Venezia che inesorabilmente si avvicinava alla fine dei suoi giorni, di quella Venezia patria di musicisti, pittori, commediografi, attori, uomini di cultura ma soprattutto di spie, libertini e buongustai, la Venezia delle osterie, dei bastioni e delle fùratole.
Celebrare il cibo sulla tela non era cosa rara e il Longhi lo fa più volte includendo tra i ritratti degli spaccati di vita veneziana quella Venditrice di Frìtole emblema di quei carnevali che nel ‘700 raggiunsero l’apice della loro opulenza.
La Polenta, tela esposta come la Venditrice di Frìtole a Ca’ Rezzonico, oggi museo del ‘700 veneziano, celebra un cibo ritenuto povero e accusato a torto nei secoli scorsi di essere responsabile della pellagra.
Una delle immagini più comuni di una cucina veneta ritrae la càliera appesa sopra il fuoco del camino con la massaia intenta a girare, quella stessa polenta che fa dire a Rosaura, in un intrigante dialogo con Arlecchino tratto da “La donna di garbo”, commedia in tre atti del 1743 di Carlo Goldoni: “.. poi pian piano tutti due ce ne anderemo in cucina. Io già avrò preparato il bisogno; onde bel bello accenderemo il fuoco, empiremo una bellissima caldaia d’acqua, e la porremo sopra le fiamme. Quando l'acqua comincierà a mormorare, io prenderò di quell'ingrediente, in polvere bellissima come l’oro, chiamata farina gialla; e a poco a poco anderò fondendola nella caldaia, nella quale tu con una sapientissima verga andrai facendo dei circoli e delle linee. Quando la materia sarà condensata, la leveremo dal fuoco, e tutti due di concerto, con un cucchiaio per uno, la faremo passare dalla caldaia ad un piatto. Vi cacceremo poi sopra di mano in mano un’abbondante porzione di fresco, giallo e delicato butirro, poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio….”.
Più che la descrizione della ricetta quella di Rosaura sembra una vera e propria dichiarazione d’amore verso quella “materia condensata” ottenuta da una “polvere bellissima come l’oro” cucinata nottetempo per farne poi una merenda accompagnata da quel “vin dolce” che, navigato dal Levante, a Venezia prendeva il nome di Malvasia.
Il ben grattato formaggio al quale Rosaura fa riferimento altro non è che il Piacentino, avo di quello che oggi chiamiamo il Parmigiano Reggiano, lo stesso Piacentino che proprio Pietro Gradenigo ci riporta essere in vendita ai mercati di rialto nel 1773 a “a soldi (Veneti ndr) 32. la libra”.
La càliera o caldiera, rigorosamente in rame, era opera dei Caldiereri, arte fondata nel 1294 che riuniva proprio gli artigiani che producevano le càliere per la polenta, un’arte specifica la cui Màriegola (Madre Regola ndr) è tutt’oggi conservata al Museo Correr a Venezia e gli aderenti avevano altare nella chiesa di San Zan Degolà (San Giovanni Decollato ndr) fortunatamente scampata alla barbarie delle soppressioni napoleoniche che hanno devastato il patrimonio ecclesiale di Venezia all’inizio dell’ottocento.
Longhi non ha la grazia di Rosaura nel descrivere la polenta ma, a modo suo, la celebra anche lui con delicatezza nella sua tela, lo sfondo scuro che ricorre in moltissime delle sue opere e che molti ritengono mutuato dai fiamminghi, quei soggetti quasi strappati alla gestualità quotidiana della quale proprio la polenta fa parte nella sua Venezia.
Quella polenta che nel secolo di Longhi era paragonabile allo street food di oggi e veniva venduta anche nei caselli, sparsi per tutta Venezia, dai frìtoleri che provvedevano a cospargerla di quel bùtirro fuso che anche Goldoni menziona.
La polenta di oggi, declinata in due diverse tipologie: bianca da mais biancoperla e gialla che raggiunge la sua perfezione con il mais Marano, ha perso la connotazione di pietanza che per molti secoli l’ha contraddistinta ma rimane la comprimaria importante di molti piatti della tradizione, sarebbe infatti impensabile un Bacalà a la Vicentina senza la sua polenta o il venezianissimo mantecato che viene spesso servito su un quadrato di polenta brustolà, il figà a la venessiana (fegato alla veneziana ndr) perderebbe molto del suo fascino senza la sua polentina mòla (morbida ndr), ovvero al cucchiaio, e molte altre sono le situazioni dove la polenta diventa anche oggi insostituibile.
La polenta che molti vogliono trasversale a tutta la gastronomia del bel paese, in una contrapposizione tutta italica, identifica, con il termine pòlentoni, i popoli del nord che, da tempo immemore ne fanno grande uso, anche se tra regione e regione le differenze sono evidenti, a certificarlo c’è la ricchissima polenta taragna bergamasca che vede tra gli ingredienti il formaggio, con ogni probabilità mutuata dalla ricetta in uso a Venezia della cui millenaria Repubblica il territorio di Bergamo faceva parte, e qui si apre una diatriba perché non né ancora chiaro se fontina, gorgonzola o taleggio ma lasceremo ai posteri l’ardua sentenza.
Giovanni Veronese
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