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La tonnara di Favignana

Il mare delle Egadi è arrabbiato quando inizia il breve viaggio che mi porta da Trapani a Favignana e sull’aliscafo si balla a causa del vento forte, sbarco sull’isola ed è immediata la percezione di quello che mi aspetta, mentre mi incammino verso il punto di incontro con Valentina, la proprietaria dell’appartamento che avevo affittato, costeggio alcuni carrettini di pescatori che magnificano il loro pescato a gran voce: spigole, palamite, ombrine, crostacei assortiti, un paio di belle ricciole affiancate da un tonnetto ed è stato così che ho capito immediatamente di essere nel posto giusto.
Favignana, la farfalla, per la sua forma, un isola che prende il nome da un vento: il Favonio, che in estate sferza forte e asciutto increspando il mare, mentre in inverno è umido, fastidioso, un’isola che ai tempi dei greci si chiamava Aegusa, ovvero l’isola delle capre, brulla con un po' di macchia mediterranea e un mare che non ha nulla da invidiare a quello dei tropici.
Nel VII secolo a.C.  fu colonizzata dai Fenici ed in epoche più recenti ci furono i Saraceni e poi i Normanni, in epoca borbonica divenne luogo di prigionia e confino principalmente per i dissidenti politici, tanto che l’attuale carcere sull’isola nasconde all’interno delle mura di cinta i resti dell’antico castello di San Giacomo, ma la storia che voglio raccontare io è un’altra.
La mia prima sosta, dopo essermi frettolosamente liberato dei bagagli e dell’attrezzatura subacquea, è alla tonnara Florio che mi accoglie con tutta la sua imponenza, opera dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda è, nei fatti, uno stabilimento a ciclo completo dalla pesca alla preparazione, fino al confezionamento finale.
La storia inizia nel 1841 quando Vincenzo Florio, quarantaduenne di grande ingegno appartenente ad una delle famiglie siciliane più in vista, prende in affitto lo stabilimento dalla famiglia Pallavicini di Genova e in epoca appena successiva acquista anche le isole di Favignana e Formica, in quest’ultima era attiva un’altra piccola tonnara, nel 1874 si iniziano i lavori e agli inizi degli anni ’80 dell’ottocento lo stabilimento è completato, assumendo le dimensioni, ben trentaquattromila metri quadrati di superficie i due terzi dei quali coperti, e le sembianze che possiamo vedere oggi.
Visto dalla parte dei favignanesi il tonno non è solo un pesce ma è vita, la garanzia di un lavoro e di un grande impulso all’economia dell’isola, Vincenzo Florio viene visto come un benefattore perché si cura anche del benessere delle famiglie dei lavoranti.
Le tonnare sono in piena attività e tanto è grande l’ingegno di Florio che nel 1889 la Tonnara Florio presenta all’ Esposizione Universale di Parigi l’innovativa scatoletta di latta con apertura a chiave che veniva usata per la prima volta per confezionare il tonno e fino a poco tempo fa di uso comune, oggi la chiave che arrotolava la stretta fascia di metallo è stata soppiantata dall’apertura a strappo.
Tutto procede bene, mattanza dopo mattanza, fino agli inizi del’900 quando le aziende della famiglia Florio, impegnata su molti fronti oltre alla pesca tra i quali navigazione, agricoltura e produzione di vino, risentono di un forte indebitamento, saranno alcune tragiche vicissitudini familiari, la prima guerra mondiale e il successivo boom industriale che sposta l’industria nell’Italia del nord a portare praticamente al fallimento le attività di famiglia e così, nel 1937, la tonnara, assieme alle concessioni per la pesca, viene venduta alla famiglia genovese Parodi, con la vendita si chiude di fatto un epoca della quale è rimasto uno splendido ricordo nei favignanesi.
La tonnara rimane in attività fino alla fine degli anni ’90 del novecento per essere poi acquisita dalla Regione Siciliana e trasformata in uno splendido sito di archeologia industriale con all’interno un museo che parla dell’affascinante storia dell’isola, ricco di molti reperti ripescati nelle sue acque, tra i quali molti rostri di navi antiche.

Finita la visita mentre mi accomiato dal personale della tonnara da una gentile signorina mi viene fatto il nome di Gioacchino Cataldo, l’ultimo Rais della tonnara, la memoria storica degli ultimi quarant’anni di attività, fisso un appuntamento per il tardo pomeriggio e in uno dei locali che costeggiano il breve corso Vittorio Emanuele lo incontro.
L’impatto è incredibile, Gioacchino Cataldo è un omone di due metri di altezza, con una barba che lo fa assomigliare tremendamente a Nettuno, due mani che appoggiate sul tavolino del locale lo coprivano per metà e i modi gentili, educati, l’ottima abitudine di guardare negli occhi mentre parla e un sorriso che rassicura.
La conversazione va subito alla tonnara e Gioacchino, con una malcelata punta di malinconia, è un fiume in piena, nel suo racconto è possibile rivivere le fasi della mattanza, sentire il rumore del mare, dei tonni che si dibattono nella camera della morte, l’odore forte del loro sangue, ascolto in assoluto silenzio e anche il rumore dello struscio sul corso scompare, non devo neppure prendere appunti, tanto che dodici anni dopo ricordo ogni singola parola di quel racconto.
Gioacchino è una fonte preziosa per il “dietro alle quinte”, la preparazione della tonnara e la trepidazione delle ore antecedenti la mattanza, le cialome, canti mutuati dalla tradizione araba, che accompagnano la mattanza e danno il ritmo ai tonnaroti, la mattanza e il rientro con il pescato, le fasi di un rito antico raccontate da chi ha salito tutti i gradini della piramide fino all’apice, dal mettere in ordine le cime fino a decidere ogni dettaglio di una mattanza con la responsabilità di ognuno dei tonnaroti che vi prendevano parte.
In ogni mia “discesa” sull’isola per gli anni a venire l’appuntamento con Gioacchino è stato un must irrinunciabile, le “lezioni di tonno”, come le avevo soprannominate strappandogli una risata, si ripetevano con cadenza regolare e si era instaurato un rapporto amichevole che aveva, forse, appena scalfito la scorza dell’uomo di mare, del Rais che ogni tanto mi deliziava con aneddoti privati.
È un tristissimo giorno di luglio del 2018 quando leggo che Nettuno ci ha lasciato, è tornato per sempre al suo mare, sgorga una lacrima ma subito mi sorprende il ricordo della sua voce e inizio un’altra chiacchierata con lui.

Giovanni Veronese

© Riproduzione Riservata

(foto Giovanni Veronese)

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