Magnàr Venessiàn. Cinque locali consigliati e un piccolo manuale di autodifesa
Tentare una sortita gastronomica a Venezia può rivelarsi contemporaneamente costoso e deludente, l’offerta è spesso tagliata per le orde turistiche che affollano la città lagunare magari in infradito e magliette sgargianti credendo che la gastronomia veneziana sia omologabile con quella italiana e sbafandosi a quattro palmenti porzioni di lasagne bolognese with parmesan, o piatti di carbonara, spesso congelati e resuscitati in un forno a microonde, che con la gastronomia lagunare nulla hanno a che fare.
Detto questo la prima regola del nostro manuale è evitare tutti quei locali che espongono il cartello “menù turistico”, la seconda come dice sempre un caro amico di Cannaregio è “Va a vedàr San Marco ma va a magnàr a Rialto”.
San Marco, o meglio l’area marciana, è a forte vocazione turistica e la stragrande maggioranza dei locali si sono adattati ai gusti di una clientela multietnica che della cucina veneziana non sa assolutamente nulla, a Rialto fin dai tempi repubblicani della Serenissima c’era la maggior concentrazione di osterie molte ancora aperte.
La terza regola è quella di “magnàr venessiàn”, quindi il pesce di laguna con una piccola deroga per quello dell’alto Adriatico oltre le bocche di porto e per il “merluzzo che ci viene da Terranova” come definisce il bacalà il solito Giacomo Casanova nella sua autobiografia.
Quel pesce che molti, non si sa bene perché, continuano a definire “povero”: bosèghe (cefali), sardoni (alici), sardèle (sardine), sfogi (sogliole), gransìpori, gransèole, masènete, moscardini, pevarasse, caparossoli, peòci, capesànte, canestrèli, molèche, garùsoli, sepe (seppie), bacalà, che è lo stoccafisso perché il merluzzo salato veniva chiamato Bertagnìn ai tempi della Repubblica, e la lista sarebbe ancora lunga.
Tra i molluschi possiamo con cognizione di causa infilarci anche le ostriche, quelle “òstreghe” magnificate nel ‘700 dal conte Francesco Algarotti nel suo opuscolo “Notizie dal Mondo” e che arrivavano nientemeno che dai bacini dell’Arsenale. Praticamente un chilometro zero ante litteram.
Tra i primi possiamo citare i bigoli, magari in salsa, che non vanno confusi con quelli con la sardèla, oppure quelli col bisàto (anguilla), i vari risi con le cape, con la bosèga, i gò o al nero de sepa, la sopa de peòci per la quale era famosa un’antica osteria di Rialto dal nome evocativo: “Il Peòceto Risorto”, e parlando di osterie veniamo finalmente ai cinque consigli per il “magnàr venessian”.
Se la vostra direttrice è la lunga Strada Nova che dalla stazione ferroviaria di Santa Lucia porta verso Rialto e San Marco vi consiglio di arrivare a campo San Geremia e poi, prima di attraversare il ponte di Cannaregio, o delle Guglie, prendete la fondamenta Venier, poi Savorgnan e San Giobbe fino a superare il ponte dei Tre Archi, il sesto per importanza, e grandezza, a Venezia che venne ricostruito da Andrea Tirali nel XVII secolo, sulla sinistra troverete la Trattoria da Marisa, attiva dal 1965, uno dei baluardi indiscussi del magnàr venessian.
Purtroppo Marisa Bertolini, un autentico simbolo della venezianità gastronomica e non solo, ci ha lasciato alla fine di agosto dell’anno scorso ma la storica trattoria resiste contro ogni omologazione a difesa della gastronomia tradizionale veneziana.
Il menu lagunare è quanto di più veneziano si possa desiderare e parla con passione di Laguna ma anche il menu non a base di pesce parla di una Venezia gastronomica che sta purtroppo scomparendo, spiccano il risotin co le secole e i risi in cavròman, i nervetti, la trippa e altre preparazioni che sempre più di rado fanno la loro comparsa nei menu veneziani.
D’estate è possibile cenare in fondamenta accarezzati dalla brezza della laguna nord della quale ebbe modo di scrivere anche Carlo Goldoni.
La prenotazione è fortemente consigliata.
Lasciamo la fondamenta San Giobbe e, percorsa tutta la Strada Nova, arriviamo a campo Santi Apostoli e, attraversato il ponte omonimo dopo aver lasciato il sotoportego Falier, sul quale insiste il palazzo che fu del Doge traditore, imbocchiamo il sotoportego del Magazen dove alla fine del porticato troverete la Trattoria Al Vagòn della famiglia Benetazzo.
Aperta dal 1951 offre un menu che trasuda venezianità autentica e i fratelli Benetazzo, Giovanna e Simone, con la mamma Celsa in cucina, perpetuano una tradizione di accoglienza che fa sentire a proprio agio chi varca la soglia di quello che nel XV secolo era appunto un Magazèn, un magazzino da vino, e a testimoniarlo ci sono le colonne della sala con cinque secoli di graffiti.
Ottima l’offerta del pesce sempre freschissimo con qualche deroga a piatti tradizionali non a base di pesce come la trippa oppure un ottimo figà a la venessiana, una buona scelta di vini e prezzi più che onesti completano il tutto.
D’estate si può pranzare, o cenare in sotoportego, sul rio dei Santi Apostoli conosciuto per l’intenso viavai di gondole che rendono uno spaccato di venezianità ineguagliabile.
Da campo Santi Apostoli prendiamo per campo San Bortolo (San Bartolomeo) e poi attraversiamo il ponte di Rialto per portarci, percorsa la ruga degli Oresi (orafi), nella ruga omonima, ruga Rialto, dove dopo circa un centinaio di metri imboccheremo sulla sinistra la calle de la Madonna, subito troveremo sulla sinistra l’osteria Al diavolo e l’Acquasanta, un rifugio sicuro per chi cerca la cucina tradizionale lagunare ma anche la cucina tradizionale non a base di pesce, e nel menu fanno capolino uno squisito bollito misto oppure una fumante pasta e fasioi che nelle giornate fredde battute dal Borìn riscalda, una sopa de tripe (zuppa di trippe) o la trippa in umido a rinverdire i fasti di un quinto quarto che a Venezia ha sempre occupato un posto d’onore.
Durante l’estate l’aperitivo in calle è quasi un must con lo spritz appoggiato sui piccoli tavolini e i cicheti che arrivano dalle fornitissime vetrine del bancone rigorosamente in legno scuro con un’aria molto vissuta. Buona la scelta dei vini in prevalenza territoriali.
Usciamo da calle de la Madonna e giriamo a sinistra in direzione di campo San Aponal (Sant’Apollinare) dove insiste la facciata dell’antica chiesa, vittima all’inizio dell’800 delle soppressioni napoleoniche, prendiamo calle Bianca Cappello, dal nome del palazzo della nobile famiglia Cappello dalla quale la nobildonna discendeva e la cui facciata si specchia sul rio de le Becherie.
Alla fine della calle troveremo l’insegna dell’Osteria Al Ponte Storto all’interno della quale è ospitata un’altra osteria: Ai 4 Feri Storti, sembra complicato ma in realtà è semplicissimo.
Ottima la proposta lagunare a base di pesce fatta di preparazioni tradizionali e piatti rivisitati con intelligenza e sensibilità, oltre al pesce è possibile spaziare tra i piatti della tradizione gastronomica nazionale con pasta preparata in casa e una buona scelta di portate nel menu.
Non si vive di solo cibo e parlando dell’osteria Ai 4 Feri Storti una citazione la merita sicuramente Manuela Vescovo, venezianissima e vulcanica regina della sala, alla quale è demandato il compito dell’accoglienza e della cura degli avventori, compito che svolge egregiamente e con grande passione.
Buona la scelta dei vini e anche in questo caso le etichette territoriali fanno la parte del leone.
Ritornando sui nostri passi lasciamo campo San Aponal e imbocchiamo calle de l’Ogio o de la Rugheta per tornare verso Rialto percorrendo ruga Rialto da dove siamo arrivati, sulla sinistra troveremo il sotoportego Do Mori che attraverseremo in direzione di calle del Bo per poi imboccare calle de le Due Spade dove dopo pochi metri sulla sinistra troveremo la cantina omonima.
Le prime notizie su questa osteria risalgono al 1488 e ci dicono che era gestita da un tale “Carlo de Zuale hosto al segno (insegna ndr) de le Spade”, altre notizie ci dicono che nel 1566 lo stabile dell’osteria era di propriertà della potente famiglia Foscari mentre nel carnevale del 1745 la Cantina Do Spade fu teatro di un episodio che vide come protagonista un Giacomo Casanova ventenne. L’episodio è spiegato in un quadretto dove è incorniciata una pagina tratta dalle Curiosità Veneziane di Giuseppe Tassini e vi consiglio di leggerlo con attenzione
Entrando sulla sinistra fa bella mostra di se il banco con la vetrina traboccante di ottimi cicheti, superata la quale si accede alle salette destinate a chi vuole pranzare o cenare, il menù è tipicamente veneziano e offre una buona scelta di portate sia tra i primi che tra i secondi.
Ottima la scelta dei vini alcuni dei quali disponibili anche al calice, simpatia e una splendida vena di venezianità completano un ritratto già a tinte molto calde.
Cinque luoghi che ho testato personalmente e che contro ogni omologazione continuano coraggiosamente ad essere baluardi di una venezianità che stiamo perdendo e che ogni giorno viene immolata sull’altare di un overtourism che sta distruggendo Venezia e le sue tradizioni.
Giovanni Veronese
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