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Pietro Querini. Il lungo viaggio del baccalà

Piero Querini, Capitan da Mar della Repubblica di Venezia secondo la versione ufficiale, anche secondo una consultatissima enciclopedia on line, ma nei fatti Patrizio Veneto con la vocazione del mercante di Malvasia, quella Malvasia di cui ho già scritto e di cui erano stipate, assieme ad altre mercanzie, la Cocha (Caracca ndr) Querina pronta a salpare da Candia nel Levante e fare rotta verso le Fiandre con i suoi ottocento barili di  vino.
Esponente di una tra le più potenti famiglie del Patriziato veneziano, presente sulla scena lagunare ben prima di quella serrata del Maggior Consiglio che nel 1297 decretò la nascita ufficiale della nobiltà veneziana, famiglia nota alle cronache storiche anche perché, nel 1310, un Marco Querini, in concorso con Bajamonte Tiepolo e Badoero Badoer, prese parte alla congiura che voleva spodestare il Doge pro tempore Pietro, detto Pierazzo, Gradenigo.
Marco Querini cadde negli scontri con le milizie della Serenissima assieme al figlio Benedetto, mentre l’altro figlio, Nicolò, riuscì a riparare prima nel trevigiano e poi in Dalmazia, dove continuò a tramare contro la Serenissima assieme a Bajamonte Tiepolo.
Sedata nel sangue la rivolta e condannati al patibolo la gran parte dei rivoltosi, alla famiglia Querini viene imposto quello che può essere definito un esilio che verrà scontato dalla maggior parte dei componenti proprio a Candia ed è da lì che parte la storia di Pietro Querini.
Dopo il doveroso cappello storico è arrivato il momento di introdurre il mio interlocutore discendente di quel Pietro, o Piero per dirla alla veneziana: Paolo Francesco Quirini, profondo conoscitore della storia repubblicana di Venezia e instancabile nella ricerca di notizie riguardanti la sua famiglia, ricerca che l’ha portato da Heraklion (Candia ndr) fino a Røst, nell’arcipelago delle isole Lofoten, oltre il circolo Polare Artico, sulle tracce del suo antenato scopritore del baccalà inteso come stoccafisso, distinzione fondamentale perché in veneziano il merluzzo sotto sale prende il nome di “bertagnin”.
L’incontro è necessariamente telefonico, visto il morbo del XXI secolo che non dà tregua, e ovviamente la prima domanda riguarda il grado di parentela con il comandante della Cocha Querina e la ricostruzione del suo albero genealogico.
Il cognome giusto è Quirini, lo si evince anche dall’albero genealogico compilato da Alessandro Girolamo Capellari Vivaro nel 1737, mentre Querini è una licenza linguistica veneziana, in una città dove si adattano i nomi dei santi anche il patriziato ha sempre dovuto sottostare alla regola, Paolo Francesco fa capo al ramo dei Quirini di Santa Giustina, luogo in cui si stabilì la famiglia dopo la grazia concessa dalla Serenissima nel 1406, ben novant’anni dopo i fatti della congiura della  quale abbiamo già accennato, quando Pietro aveva solo due anni, l’anno di nascita è presumibilmente il 1404.
Il ramo di Santa Giustina ha comunque origine dai Querini di Candia, la residenza era il Castel Temene, oggi ridotto ad un cumulo di rovine, recentemente visitato da Paolo Quirini sulle tracce della sua storia familiare, viaggio suggestivo che lo vede arrivare sull’isola di Creta il 7 ottobre del 2006, giorno evocativo che guardando il calendario corrisponde a Santa Giustina e che guardando la gloriosa storia Patria evoca la vittoria di Lepanto, da una delle chiese cattoliche dell’isola si sentono anche le campane di mezzogiorno, come quelle che il Papa Pio V fece suonare per la vittoria navale sul turco, la commozione è inevitabile e una lacrima solca il viso di Paolo.
Il racconto di Paolo Quirini è incalzante, senza esitazioni, i riferimenti araldici e storici sono precisi, circostanziati.
Rimango coinvolto e per un momento mi vedo sulla banchina del porto di Candia mentre Pietro Querini sta ultimando i preparativi per salpare.
A Candia il 25 aprile 1431, giorno di San Marco, è tutto pronto e nella “pancia” della Cocha Querina ci sono ben cinquecento tonnellate di mercanzie, oltre alla Malvasia sono stati stivati allume di rocca, spezie, cotone ed altre mercanzie di pregio.
Pietro Querini, presumibilmente per una questione meramente economica decide di non affrontare la navigazione verso le Fiandre in “muda”, ovvero in convoglio con altre navi, i convogli avevano il vantaggio di essere scortati dalle galee armate della Serenissima che avevano il compito di proteggere le navi mercantili da eventuali attacchi, bensì in solitaria, accompagnato dai luogotenenti Nicolò de Michele e Cristofolo Fioravante con un equipaggio di sessantotto uomini.
La navigazione inizialmente procede bene e il 13 settembre la Querina si trova nei pressi di Capo Finisterre, una propaggine di terra su quella che gli spagnoli chiamano Costa de la Muerte, nome emblematico che ricorda i molti naufragi con numerosissime vittime, in Galizia.
Il 14 settembre tutto si complica, iniziano a scatenarsi gli elementi, la Querina è un fuscello in balìa di enormi onde, la nave è difficilmente governabile e poco dopo subentra l’avaria del timone che la rende ingovernabile del tutto, a dare il colpo di grazia è la rottura dell’albero, la nave priva del timone e delle vele adesso è alla deriva disalberata  e ci rimarrà per circa nove settimane.
Il 17 dicembre Pietro Querini decide l’abbandono della nave oramai semiaffondata e un brano del suo diario ci dà la percezione di quanto sofferta sia stata questa decisione.

Partimose adonque a ore 2 del dito zorno arbandonando quela infelize nave, la qual con sumo studio e grande deletazione aveva ornata e preparata, in nela qual io aveva posto mediante lo suo navigare asai falibele speranza, come ho predito nel primo di questo libro, et in quela lasiamo malvasie bote 800, ancora asai udoriferi anziprexi lavorati, piper e zenzeri per asai bona valuta et asai altre robe di valore, e dato che la dita orbata nave fuse in tuto dinutata, tamen, nel asaltarnarxe da quela, a nui pareva arbandonar non tanto la patria nostra ma la iocondisima vita”.

Anche Antonio De Cardini riporta in una nota presente in un codice della Biblioteca Marciana (368 VII) un breve resoconto che rende bene il dramma vissuto in quei momenti.

Compilatione per me Antonio di Chorado de Cardini di Fiorenza di xiiij dezembre composto per lo referire de sier Cristofolohomo di consiglio e per Nicolò de Michiele scrivan dela infelice e sventurata chocha Querina orbata al longo viagio de Flandria doppo terribilli et in auditi pericolli hocorssi del anno MCCCCXXXI

 

Abbandonare quella nave non era solo come abbandonare la Patria, era come morire, era la fine di un sogno, il fallimento di un’impresa ma la decisione andava presa e così Querini, i luogotenenti e quarantasette uomini, prendono posto su una lancia, mentre altri diciotto marinai si imbarcano su uno schifo, poco più di una scialuppa, e allontanandosi dalla sagoma della Querina che affonda affrontano il Mare del Nord in tempesta.
Dello schifo si perdono immediatamente le tracce, con ogni probabilità è stato inghiottito dal mare in tempesta assieme alle vite dei marinai, la lancia con Pietro Querini rimane alla deriva per altre quattro settimane mentre a bordo gli uomini vengono decimati, complice anche una bevanda ottenuta da vino e acqua salata consumata in grande quantità.
Il 14 gennaio 1432 Pietro Querini e sedici uomini superstiti approdano sull’isola deserta di Sandøy, vicino a Røst, nell’arcipelago delle Lofoten e qui si accampano per undici giorni e sopravvivono mangiando patelle usando la lancia come riparo di fortuna.
Furono i fuochi accesi per scaldarsi che attirarono l’attenzione dei pescatori della vicina isola di Røst che andarono in loro soccorso e dopo averli nutriti li ospitarono.
Per descrivere la posizione dell’isola Pietro Querini usa una frase abbastanza curiosa facendoci sapere che “in ver ponente dal Capo di Norvegia luogo forian et estremo perchè è chiamato in suo linguaggio culo mundi, da miglia 70 , et basso in acqua et piano eccetto alcune mote dove sono fabbricate le sue casette” curiosa la definizione di “culo mundi” che affibbia a quello che definisce Capo Norvegia.
Fedele all’abitudine veneziana di adattare i nomi all’etimologia patria l’isola viene immediatamente soprannominata Rustene, non ci è dato modo di sapere se l’intraprendente patrizio abbia anche piantato un vessillo marciano ma non sarei per nulla stupito se l’avesse fatto.
L’arrivo di Querini a Røst coincide con la scoperta di quello che gli inglesi conoscevano già come lo stockfish, tradotto da Boerio giustamente come “pesce bastone”, enormi rastrelliere in legno con appesi migliaia di merluzzi che venivano essiccati con l’aria secca e fredda delle isole.
Un pesce che può essere trasportato via mare nelle stive senza che marcisca, nella mente del pragmatico Querini, mercante e Paron de Nave, devono essersi aperti orizzonti infiniti e così il 15 maggio 1432, con l’aiuto dei pescatori riprende il mare e stivati sulla sua imbarcazione, oltre a viveri e acqua dolce, ci sono sessanta stoccafissi, quei sessanta stoccafissi che si premurerà di consegnare al Doge Francesco Foscari una volta fatto rientro a Venezia e da lì possiamo far partire il periodo veneziano del baccalà.
Anche Røst è meta delle peregrinazioni di Paolo Francesco Quirini e la narrazione prosegue con un aneddoto curioso accaduto al suo arrivo in albergo: la proprietaria intenta a registrare la sua presenza alza la testa e guardando Paolo dice “Anch’io dovrei essere una Querini”, l’affermazione, probabilmente scherzosa, potrebbe però avere un suo fondamento visti i tratti somatici che il mio interlocutore definisce non propriamente nordici e anche in forza del fatto che il nome più comune sull’isola è Pedersen, tradotto figlio di Pietro ma siamo ovviamente nel campo delle ipotesi.
Sull’isola di Sandøy si reca a visitare la stele che identifica il luogo dove prese terra il navigatore veneziano accolto dal sindaco di Røst e anche in quell’occasione la commozione ha la meglio.
Tornando a Venezia il solito, e prezioso, Giuseppe Tassini ci dice che la Fondamenta del Baccalà a San Gregorio “prende certamente il nome dai magazzini ripieni del noto pesce seccato, che in buon dato ci viene d'oltremare”, oggi il nome della fondamenta è cambiato in Ca’ Balà, forse in omaggio a quella cabala ebraica molto presente a Venezia e mal vista dalle autorità della Repubblica.
Volendo dare un’interpretazione veneziana al baccalà viene immediatamente in mente quel mantecato che Giacomo Casanova, amante dei sapori forti, nelle sue memorie definisce “il merluzzo vischioso”, la mantecatura, termine di origine spagnola che deriva da mantequilla, burro, è il risultato dell’emulsione dell’olio extra vergine d’oliva versato a filo mentre il mestolo di legno mescola con vigore fino ad ottenere una crema dove affiorano piccolissimi pezzi di polpa, assolutamente vietate aggiunte di panna o altri emulsionanti per ottenere il risultato.
Lo stoccafisso che dà vita al baccalà mantecato, prima di essere unito all’emulsione di olio, è stato battuto per ammorbidirlo, bagnato per reidratarlo e bollito e questo preambolo preparatorio è necessario anche per quel baccalà alla vicentina, piatto consigliato nei periodi di magro, un totale di oltre duecento giorni l’anno, e approvato dal Concilio di Trento nel dicembre del 1563, che al posto della mantecatura prevede una cottura lenta in olio e latte con abbondante cipolla, previa leggerissima infarinatura.
La ricetta ufficiale, che non ammette deroghe, è quella della Venerabile Confraternita del Baccalà alla Vicentina che ha la sua base a Sandrigo, ovviamente in provincia di Vicenza, ed è proprio in onore di questa località che un isolotto vicino a Røst ha preso il nome di Sandrigo.
A Vicenza, quando si parla di stoccafisso, si parla di “ragno” e sull’onda dei veneziani anche i vicentini in questo caso hanno adattato il nome dell’importatore più conosciuto, tale Ragnen, la qualità della materia prima è fondamentale e la preparazione e la cottura lo sono altrettanto.
Oltre al baccalà mantecato e quello alla vicentina troviamo quello alla cappuccina che prevede l’uso di pinoli, uvetta e cioccolato fondente, quest’ultimo normalmente abbinato ad alcune carni nella cucina medievale, alla trentina con le patate e alla livornese che però viene fatto con il merluzzo sotto sale e non con lo stoccafisso.
Gli abbinamenti possono essere molteplici e, ad esempio con il baccalà alla vicentina, è lecito sperimentare, magari abbinando un metodo classico rosé al posto del solito Sauvignon, anche un rosso a patto che non sia di grande struttura, magari un rosso di pronta beva come quel Tai Rosso dei Colli Berici, ottenuto da una grande uva francese come il Grenache, fatta arrivare nel vicentino dai monaci Cistercensi e poi diffusa in loco dai Canonici di Barbarano, l’ho provato con un Pinot Nero altoatesino, rigorosamente vinificato in acciaio, e il risultato è stato più che apprezzabile.
Con il baccalà mantecato il consiglio è di rimanere molto più sul classico anche se una concessione ad un metodo champenoise brut, magari un bel Trento Doc, va fatta.
Rimangono validi, escludendo le preparazioni con pomodoro, gli abbinamenti classici con i bianchi già ampiamente sperimentati e qui, per rimanere territorialmente nei confini della Repubblica di Venezia, il Friuli la fa da padrone con Collio e Colli Orientali ma senza trascurare il Carso con la sua Vitovska.
Mi congedo a malincuore dal nostro ufficiale di rotta Paolo Francesco Quirini e ci lasciamo con la promessa di un incontro nella Dominante con i piedi sotto la tavola, il baccalà nel piatto e il calice pieno di Malvasia.

 

Giovanni Veronese

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