El Magnàr de magro
ai tempi della venezia repubblicana
Idee per un menu alternativo per la Vigilia di Natale
Iniziamo con il dire che la vigilia di Natale era , ed è tuttora, giorno di magro quindi l’osservanza dei precetti è importante anche se la modernità ha reso obsolete queste pratiche che invece al tempo della Serenissima erano strettamente osservate.
Non solo il Natale e la sua vigilia ma anche San Martino, il Rosario e altre ricorrenze oltre ad avere una valenza religiosa ne avevano una gastronomica indipendentemente dal fatto che bisognasse osservare il precetto del “magnàr de magro”.
Tornando alla vigilia vorrei provare a riattualizzare alcuni dei piatti storici per proporre un menu della vigilia che ci riporti ai tempi della Serenissima e vorrei che questo fosse inteso non come nostalgia ma come valorizzazione di una cultura che, immolata sull’altare dell’omologazione e del cibo spazzatura, sta oggi scomparendo.
Per una questione di comodità proporrò una progressione basandomi sui canoni attuali di una cena, quindi partendo dall’antipasto e arrivando al dessert, anche perché se guardassimo i menu dei pranzi, o delle cene, all’epoca della Venezia repubblicana, spesso composti da oltre venti portate, la cosa diventerebbe quantomeno difficoltosa, famoso rimane quel convitto in casa Nani immortalato su tela nientemeno che da Pietro Longhi.
Abbiamo detto che tradizionalmente la Vigilia prevede il mangiar di magro quindi il nostro menu sarà a base di pesce dove la scelta ci permette di spaziare tra un ventaglio molto vasto di opzioni.
L’antipasto che non può mancare parlando di Venezia è sicuramente il bacalà mantecato, magari preparato con la ricetta della Dogale Confraternita, al quale potremo eventualmente affiancare qualche sarda fritta o in saòr, qualche canestrello o le ostrèghe magnificate da quel conte Algarotti che nel secolo dei lumi definiva quelle presenti nell’arsenale di Venezia "le più buone d'Europa".
Un’alternativa alle pregiatissime ostriche sono i peòci, le cozze, magari serviti in sauté con il loro brodetto rigorosamente bianco perché il pomodoro nelle ricette veneziane fa la sua comparso solamente dopo la metà dell’ottocento.
Tra le cape (conchiglie) in un antipasto che si rispetti due alternative sono le capesante e i canestrelli che devono essere entrambi rigorosamente di laguna.
Tra i gransi (granchi) gransipòro e granseòla sono sicuramente da preferire, anche se la preparazione richiede un po’ di esperienza e molta pazienza.
Le canòce (canocchie) sono ammesse e nell’eventuale scala degli antipasti andranno al primo posto vista la delicatezza della loro polpa che andrà condita con un filo di olio sale e una parsimoniosa macinata di pepe.
Nella progressione di un menu ai tempi della Serenissima l’ordine non era quello attuale ed il primo non era certo un must ma noi, per una questione di praticità, inseriremo un potàge, una zuppa o meglio un bel brodèto istriano, quindi calamari, scarpèna (scorfano), anzoléto (gallinella), bertagnin (merluzzo) e qualche capa (conchiglia) preferendo peòci e pevaràsse.
Se non vogliamo avventurarci in una zuppa possiamo puntare sui risi, per dirla in veneziano, e un bel risotìn con la bosega potrebbe essere una scelta perfetta, oppure anche un bel risotìn coi gò (chiozzo).
Per quanto riguarda la pasta ci avventuriamo in un terreno accidentato perché durante la Repubblica, quella durata undici secoli, la pasta come la intendiamo oggi praticamente non esisteva ma un bel bìgolo in salsa, preparato con le sarde sotto sale, non con le acciughe sott’olio, e soprattutto senza licenze sugli ingredienti, quindi sarde, cipolla e olio può tranquillamente starci.
Per il secondo la scelta è vasta e si spazia dal venezianissimo bisàto (anguilla), magari “su l’ara” come si faceva a Murano utilizzando la superficie destinata alla tempratura delle lavorazioni in vetro, fino al bacalà che potrebbe essere a la capucìna, piatto friulano di origine monastica nobilitato da pinoli, uvetta e cannella, oppure il bacalà a la vicentina, ricco e particolarmente saporito, da non trascurare le seppie magari al nero con la loro polentina molla rigorosamente gialla, così sfatiamo la bufala che la polenta veneziana era solo bianca.
Gli sfogi (sogliole), magari fritti che vanno bene anche integrati in un’ottima frittura mista nella quale non possono mancare canestrelli, calamari e anche qualche ottimo gambero.
Per quanto riguarda il dessert possiamo attingere alla credenza con la classica biscotèria, zaleti, pevarini, essi buraneli magari accompagnati da un ottimo zabajòn preparato con vino passito (o ossidato) e non con il Marsala che sarebbe arrivato solo nel 1813 a Repubblica di Venezia già purtroppo caduta per mano di Napoleone Bonaparte.
Altro dessert ammesso è la torta Nicolotta che risale ai tempi dell'antagonismo tra Castellani e Nicolotti, questi ultimi i pescatori, le due fazioni erano in eterna lotta che spesso sfociava in violenti scontri.
Questione spinosa sono i vini perché chi filofrancese vorrebbe pasteggiare a Champagne deve sapere che il prestigioso spumante ai tempi di Casanova era dolce, o nella migliore delle ipotesi demi-sec quindi non abbinabile alle portate proposte.
Rimane quindi l’opzione vini fermi e qui la scelta è veramente vasta iniziando dalle colline del Soave, passando per i Monti Lessini con il Durello oppure per i Colli Berici per arrivare al Collio Goriziano e poi all’Istria con il Collio Sloveno e la zona di Buje in Croazia con le Malvasie che il Boerio definiva “..i vini che ci vengono navigati dal Levante…” e ovviamente intendeva il Levante veneziano.
La chiusura è demandata al caffè che in omaggio a Venezia sarà un’arabica pura come quello preparato dai caffè di piazza, Floriàn e Quadri in testa dove il caffè era l‘opportunità per l’aggregazione sociale, per le “quatro ciacòle dopo el listòn”.
Giovanni Veronese
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