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Le osterie di Rialto
Dal medioevo alla dominazione austriaca

San Marco centro religioso ed istituzionale della Repubblica e Rialto cuore economico pulsante con i suoi mercati, il Bancogiro, cuore finanziario in campo San Giacomo di Rialto, la calle della sicurtà dove vi erano gli “scancelli degli assicuratori” e ultime, ma non meno importanti, le tante osterie, perché a Rialto vi era una concentrazione altissima di osterie, ognuna con una storia da raccontare.

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Rialto, estremità a nord di quella zona definita Rivus Altus che storicamente è il nucleo urbano fondante di Venezia, viene scelta per impiantarvi i mercati perché composta da isole di maggior superficie con meno rii, affacciata sul Canal Grande, tutte caratteristiche ideali per movimentare senza problemi le merci ed ottenere più spazio per poterle esporre.

I mercati sono sicuramente il fattore scatenante per la proliferazione delle osterie in questa parte di Venezia, per provare a capire cos’era Rialto ai tempi della Serenissima dobbiamo pensare ad un’area densamente frequentata, forse anche un po’ caotica, affollata di mercanti e di compratori, di cittadini che quotidianamente si recavano ai mercati. Quale miglior posto per aprire un’osteria?

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Tra le prime osterie di Rialto su cui si trova traccia documentale dal 1227 c’è quella De la Scimia, nella calle omonima vicino alla Pescaria Granda che era in un fabbricato donato alle monache del monastero di San Lorenzo dalla famiglia Venier, di questa osteria ci parla anche il cronista cinquecentesco Marin Sanudo per farci sapere che la stessa venne distrutta dal terribile incendio del 10 gennaio 1513 e aggiunge “et era nova”, nel senso che i locali erano appena stati rinnovati.
L’osteria de la Scimia anticipa addirittura la fondazione della confraternita d’arte degli osti che avverrà nel 1335 e può essere a ragione considerata la prima osteria su cui possiamo trovare tracce documentali.

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Altra osteria antica della quale si hanno tracce fin dal 1341 è quella de la Campana a San Matteo di Rialto, famosa anche per essere appartenuta alla famiglia del già citato Marin Sanudo.
L’osteria balzò ulteriormente agli onori delle cronache nel 1507 in occasione del matrimonio tra una Grimani ed un Morosini, entrambi conosciuti per la loro spilorceria tanto che festeggiamenti furono rovinati da un banchetto talmente misero che due componenti della compagnia della calza degli Eterni, i celebri buffoni Stefano e Domenico Tagliacalze, improvvisarono una questua per le calli di Rialto per poter finanziare una cena decente proprio all’osteria de la Campana.
L’osteria scamperà miracolosamente al furioso incendio del 1513 e nel 1533 passerà in eredità alla figlia del Sanudo.

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Oltre alla Scimia e alla Campana possiamo trovare molte altre osterie a Rialto, alcune delle quali ancora attive dopo secoli di storia come la Cantina do Spade che nel ‘700 era solo l’osteria alle Spade a San Matteo di Rialto che nel 1488 era condotta da: “Carlo de Zuane hosto a l’insegna de le Spade” che nello stesso anno era anche il gastaldo della confraternita degli osti.
L’osteria de le Spade è una delle due, assieme a quella del Selvadego a San Marco, ad essere nominata nella monumentale autobiografia di Giacomo Casanova per un episodio accaduto durante il carnevale del 1745 quando lui e alcuni compari si divertirono con una popolana di San Giobbe.
L’osteria de le Spade era tristemente famosa anche per il gioco d’azzardo e non furono pochi gli episodi criminosi avvenuti tra le sue mura, alcuni particolarmente efferati.
Il 10 Ottobre 1730 il barcaiolo Gaspar Ballò ferisce a colpi di pistolese (tipo di coltello molto comune a Venezia a quei tempi) G.B. Portese, il 13 Settembre 1731 tale Batista Salata Lustrador di serici villosi (panni di seta) viene preso a giocare d'azzardo, nel Gennaio 1736 ne l'osteria de le Spade “si sente contese” tutta la notte causa il gioco d'azzardo.
Il 5 Gennaio 1736 tale Bastian Casna, camerier presso l'osteria (delle Spade) viene beccato a tener banco di gioco nella stessa osteria, il 25 marzo 1771 Zulian Zuliani, Mascherer (artigiano che produceva maschere), ferisce il barbiere Francesco Doglioni detto Orada.
Oggi la Cantina Do Spade, erede della turbolenta osteria dei tempi di Casanova, continua a proporre ottima venezianità con i suoi cicheti e con un menu dove la tradizione gastronomica lagunare è ben presente.

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Dopo aver svoltato da ruga de i Oresi, così chiamata per la presenza delle botteghe degli orefici, in ruga Rialto troverete sulla vostra destra il sotoportego dei Do Mori e qui nasce un piccolo giallo.
L’osteria dei Do Mori, secondo quanto spiegatomi dagli attuali proprietari, nasce nel 1462 ma i toponimi calle e sotoportego dei Do Mori risultano essere più recenti perché non se ne trova traccia prima del 1740 mentre nel 1760 leggendo la Gazzetta Veneta avremmo scoperto che nell’osteria: “si dispensa una bibita chiamata Alfabeto a soldi 5 la chiccara”.
Probabilmente l’osteria dei Do Mori subentra nel 1740 ad un’altra preesistente e aperta dal XV secolo che durante un incendio nel 1505 venne gravemente danneggiata.

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Lasciati i Do Mori riattraversiamo il sotoportego e imbocchiamo nuovamente ruga Rialto e dopo pochi passi sulla nostra destra troveremo l’osteria all’Antico Dolo, ricavata in un fabbricato quattrocentesco che può vantare una storia a dir poco singolare.
Aperta nel 1430 e sita al piano terra trova spazio in un palazzo che al tempo altro non era se non un bordello con l’Antico Dolo che fungeva da posto di ristoro per i focosi amanti.
La cosa non ha nulla di strano perché ci troviamo vicinissimi alle Carampane, zona a luci rosse di Venezia dove nel XIV secolo si cercò, senza particolare successo, di confinare le molte meretrici che esercitavano il mestiere a Venezia.
Le meretrici durante la Venezia repubblicana non potevano avere casa affacciata sul Canal Grande, o pagare  più di 100 ducati di affitto; “non andar per Canal Grande all'ora del corso, e vagar per la città in barca a due remi; non entrare in chiesa nelle solennità, perdoni, od altri concorsi di devozione; non portare il «faziol bianco da fia» (manto, od accappatoio da donzella); non ornarsi di oro, gioie, e perle buone o false ecc. Erano escluse finalmente (e tale sorte avevano ancora i ruffiani) dal far testimonianza nei processi criminali, e non venivano ascoltate qualora avessero domandato in giudizio il pagamento pei servigi prestati” come ci dice Giuseppe Tassini, storico e scrittore ottocentesco.
Ancora oggi all’Antico Dolo si può gustare la Tripa Rissa, ricetta che affonda le sue origini nel quinto quarto della Venezia Serenissima, quinto quarto molto presente sulle tavole degli antichi veneziani.

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Usciti dall’Antico Dolo ripercorriamo ruga Rialto fino ad imboccare la calle de la Donzella dove si affaccia il Peocèto Risorto, osteria dal destino segnato perché all’inizio degli anni ’50 del settecento venne chiusa a causa di un gruppo di persone che aveva sparlato al suo interno del Doge pro tempore: Francesco Loredàn che molti sostengono essere il Doge più dileggiato della storia della Serenissima.
L’osteria nel 1740 venne aperta da un certo Pero De Pieri all’insegna de la Donzella a ribattezzarla il Peocèto furono i vendipesse della vicina pescheria per l’ottima sopa de peòci che si serviva.
La chiusura durò fino alla morte del Doge Loredàn nel 1762 e quando il De Pieri riaprì si sparse subito la voce che il Peocèto era risorto, da questo il nome che porta ancora oggi.

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Lasciato anche il Peocèto imbocchiamo la vicina calle del Bo dove in alcune case della patrizia famiglia Malipiero erano alloggiate alcune meretrici e al piano terra anche l’antica osteria del Bo, balzata agli onori delle cronache cinquecentesche per un episodio particolarmente efferato.
Un capannello di avventori fu colto a bestemmiare all’interno dell’osteria da un componente degli Esecutori contro la bestemmia, vennero arrestati e condannati ad aver mozza la lingua, strappati gli occhi e tagliata la mano destra per poi essere banditi in perpetuo da Venezia.
La sentenza venne eseguita davanti all’osteria il 5 maggio 1519 e a rendercene conto è sempre lui, Marin Sanudo.

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Le osterie, assieme ai magazini e alle malvasie, di storie da raccontare ne avrebbero molte, celebrate da Goldoni in molte delle sue commedie e strettamente controllate dalle autorità della Serenissima Repubblica alla fine di quest’ultima hanno lasciato il posto ai Bacàri, aperti durante la dominazione austriaca e resuscitati a sproposito ai tempi nostri perché i locali oggetto dei tour alcolici con i vecchi bacàri poco, o nulla, hanno a che fare.

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Giovanni Veronese

©Riproduzione Riservata

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